Saturday, August 27, 2011

Dallo scaffale: "Notte di Nebbia in Pianura" di Angelo Ricci


In inglese l’espressione ‘You can’t judge a book by its cover’ intima di non giudicare un libro dalla copertina: un monito che dovrebbe anche essere esteso al titolo, visto che anche quest’ultimo può tradire, illudere e deludere con le sue subdole promesse.  “Notte di Nebbia in Pianura”, il romanzo di esordio di Angelo Ricci, mi aveva attratta proprio per questi due motivi: la copertina, che mostrava un lampione e tre sagome umane, appena visibili attraverso una cortina di nebbia, e il titolo, che già da solo era bastato a ri-trasportarmi ai nebbiosi e bui inverni del nord-est padano dove sono cresciuta. Ve lo dico subito: ogni promessa è stata mantenuta.

Fin dalla prima pagina, questo breve romanzo - 118 pagine in tutto - trascina il lettore nel brodo umido e nebbioso di un inverno padano, e gli ricorda che ‘la nebbia ti piace perché ci sei nato dentro’. Troviamo un uomo, un capannone giallo (‘le porte erano di un verde smorto’) e una sorta di asta in corso. Una ad una, capitolo dopo capitolo, ci vengono presentate diverse sagome umane tra la quali distinguiamo: un ex-avvocato diventato televenditore, un delinquente di periferia - detto Sticazzi - dal continuo turpiloquio interiore ed un maresciallo dell’Arma in procinto di arrestare una tale Anna Sandri.
 
Non è facile descrivere ciò che esprime questo romanzo e soprattutto il perché riesca ad esprimerlo. L’autore stesso, intervistato su ‘Il Recensore’ dichiara di non credere: ‘alla letteratura che lancia messaggi e/o parole d’ordine.’ E infatti, man mano che ci creiamo un varco tra le varie sezioni all’apparenza disconnesse della storia, è inevitabile chiedersi quale sia il nesso tra i vari personaggi, quale sia, ovvero, il loro scopo. Lentamente - seppure i ritmi siano relativi in un’opera così breve - le connessioni appaiono, scorse a malapena attraverso la nebbia che Ricci crea volutamente nell’esposizione - flusso di coscienza, ricordi, dialogo interiore, flashback – il tutto senza introduzioni o spiegazioni; una nebbia che, insomma, sta a noi dipanare.

Se non è presente un messaggio ben definito, sono però ben chiari gli stati d’animo dei personaggi secondari che Angelo Ricci descrive: disagio, squallore, solitudine e isolamento. 

L’ex-avvocato che vende quadri, anzi, ‘croste’, in televisione, è costretto comunque a giustificarsi della sua scelta di carriera poco ortodossa (‘E perché fa questo lavoro da falliti? Perché non fa l’avvocato?” - “Perché non mi piace”); l’obeso recentemente diventato orfano di madre, è condannato a vedere continuamente immagini riflesse della sua adorata maestra elementare in tutte le donne che incontra. L’effetto comico del parossismo delirante di Sticazzi - a mio avviso il personaggio più riuscito tra tutti - non riesce comunque a celare completamente la rabbia intrappolata del teppistello di provincia, ovvero il senso di inferiorità nei confronti dei ‘vincenti’ locali (“un fuoristrada del cazzo di quelli guidati da quei mezzi uomini, fighette con le mestruazioni, che facevano l’università a Pavia. Ma andate a lavorare....”). E sapendo che secondo i criteri della nostra società attuale, i ‘vincenti’ sono i vari Panza e Braghenti, berlusconiani protagonisti di “NdNiP”, ritratti mentre si giocano le rispettive quote aziendali durante una partita a carte in compagnia di due ‘ballerine’ dell’Est, l’amarezza di fondo di Sticazzi sembra ancora più centrata. 

Non voglio svelare l’unica vera e propria svolta nella trama di questo romanzo; gli habitués della narrativa post-moderna riconosceranno il modello in cui le varie ramificazioni della storia si intrecciano lentamente per poi riunirsi alla fine, con risultati non sempre chiarificatori . La vera forza di quest’opera non consiste nella trama, ma nei personaggi. Lo Sticazzi, che un critico ha trovato particolarmente offensivo a causa del linguaggio scurrile, è semplicemente memorabile nel suo uso del linguaggio vernacolare e ricorda Emil Minty aka ‘Yours Truly’ in ‘Infinite Jest’ di David Foster Wallace: in entrambi i casi, si lascia parlare il personaggio, dando spazio al suo monologo interiore. Se quest'ultimo sa solo usare un linguaggio scurrile, così sia. Al critico offeso chiederei se veramente si aspetta che un sociopatico ubriaco e criminale parli come un catechista.

‘Notte di Nebbia in Pianura’ è un romanzo breve (quasi un racconto), dalla forma innovativa, e dai tratti esperti e maturi; sicuramente l’autore ha il talento necessario per un vero e proprio romanzo  in cui i personaggi possano trovare lo spazio per svilupparsi e prendere pienamente vita. Mi auguro quindi che Angelo Ricci sia già al lavoro su una nuova opera, perché a giudicare dall’esordio, questo è certamente un autore di cui sentiremo parlare in futuro.


Con la gentile collaborazione di Bandini83 - visitate il suo blog


Saturday, July 16, 2011

Linguista Per Caso

Un giovedì di qualche mese fa mi capitó di potere ordinare un corso di lingua tedesca - il Collins/Livemocha 'Active German' - tramite il programma Amazon Vine, il quale offre a un gruppo scelto di utenti, rigorosamente invitati da Amazon stessa, prodotti gratuiti da recensire. Era rimasto disponibile solo il tedesco, una lingua che gli inglesi amano ben poco, forse perché  comporta uno sforzo nettamente superiore a quello che serve per barcamenarsi durante una gita domenicale a Calais a comprare casse di vino e birra a prezzi continentali. Il tedesco - la lingua di Goethe e Hölderlin, Schiller e Mann....ma anche quella di Herzog e Wenders, non lo voleva proprio nessuno. Mi si strinse il cuore. CLICK.

Alla peggio, pensai, faccio un paio di lezioni per potere scrivere la recensione su Amazon, e poi mollo lì. Era la metà di Aprile. Mancano due settimane alla fine di Luglio e ho già passato il test online dei primi due livelli; mi sento eroica, inarrestabile. Compongo mentalmente frasi in tedesco mentre mi lavo i denti (“Ich hätte gerne ein halbes Kilo Tomaten”), poi mi angoscio nel dubbio di averci infilato errori. Come con tutto quello che periodicamente intraprendo, non conosco mezze misure.

A questo punto devo fare una premessa e aggiungere che il tedesco lo avevo già studiato, per ben 5 anni, al liceo linguistico. Ma sebbene, arrivata alla maturità, fossi allora in grado di scrivere temi dai toni elegiaci sullo Sturm Und Drang, d’altro canto non ero mai stata capace di comunicare con un tedesco senza ricorrere per forza all’uso del (maledettissimo) inglese. Due vacanze-studio a Mannheim e Salisburgo ,rispettivamente, servirono a poco, perché già arrivata ai 16 anni l’inglese mi aveva colonizzato la mente, e, al di fuori delle lezioni mattutine, in tedesco, ad esprimerci, non ci provavo nemmeno.

Fast forward una ventina d’anni con i relativi pentimenti dell’età ed eccomi qui alle prese con una lingua indiscutibilmente difficile, con al massimo un’ora o due alla settimana per studiare e le interferenze inevitabili ma fastidiose di una seconda lingua ormai già da troppo tempo avviluppatasi intorno alle mie sinapsi cerebrali. Tradurre dalla lingua madre é sbagliato, ma tradurre da una seconda lingua é tragico. La struttura dell’inglese mi complica quello che é semplice e mi inganna di continuo - portandomi a fare inutili capriole grammaticali.  Per dire una cosa semplicissima come ‘vivo qui da 16 anni’ vengo assalita dai dubbi: come si rende ‘I have been living here for 16 years’ in tedesco? Che mi serva il gerundio? O almeno un participio passato? Mando un messaggio alla mia nuova pen-friend tedesca - conosciuta su Livemocha - la quale mi spiazza con la semplicità della soluzione: “Ich lebe hier seit 16 Jahren.”  Insomma, tanto valeva tradurre direttamente dall’Italiano senza tutti questi voli pindarici.

Ammetto che l’influenza di una lingua di ceppo germanico ogni tanto però aiuti - nelle mie ‘flashcards’ di ripasso vocaboli certe traduzioni le scrivo in inglese: come rendere altrimenti ‘früh’ di ‘presto’ in quanto ‘early’ anziché ‘veloce’? Oppure ‘das Lebensmittel’ - che in inglese rende perfettamente con ‘groceries’ ma che per esprimere in italiano necessiterebbe di due parole, ‘generi alimentari’?

Fortunatamente la terza lingua che studiato, il francese, non ha ancora fatto capolino dalle parti più recondite del mio sub-conscio, nonostante lo abbia usato più recentemente per motivi di lavoro. Ma attenzione perché sto per riprendere anche quello. E chissà che razza di Frankenstein linguistico ne verrà fuori allora. 

Bis zum nächsten Mal, 

Tschüß!

Thursday, July 14, 2011

Il Fu Mattia Pascal - Un 'Fake' Ante Twitteram

Leggendo il nonPost Fake Plastic Trolls di @Jovanz74 sul nonBlog Gilda35 mi sono trovata a riflettere sul grande romanzo di Luigi Pirandello, 'Il Fu Mattia Pascal' che proprio qualche settimana fa lessi, per la prima volta. Per qualche oscura ragione, al liceo non fui mai costretta a leggerlo.  Di questo, alla mia insegnante di lettere, sono ora infinitamente grata, perché credo che a diciotto anni avrei capito ben poco.

Non so quanto, nella tarda adolescenza, ci si possa immedesimare nel personaggio di Mattia Pascal - un uomo che, martoriato dalla malasorte, coglie al balzo l'occasione per oblíare la sua stessa esistenza e ricominciare daccapo sotto il falso nome di Adriano Reis. Diciotto anni sono forse pochi per sentire un cosí forte desiderio di abbandonare tutto e re-inventarsi.

Per un adulto, il romanzo di Pirandello simboleggia, invece, il sogno di fuga, il volere cambiare vita, di fare tabula rasa e rinascere.

Considerando il periodo storico in cui venne scritto Il Fu Mattia Pascal - primi Novecento - questo é un romanzo che si dimostra ancora più attuale nell'era dei social networks. Mai come adesso, infatti, é stato possibile per chiunque reinventarsi tramite i molteplici avatars, alter ego e profili offerti dalle comunità' virtuali. Il profilo del social network é quasi un invito vero e proprio alla storpiatura dei fatti, i quali che vengono sempre più' spesso guarniti e addobbati come alberi di Natale; i confini tra verità e finzione diventano sempre più sfocati ed é veramente facile lasciarsi prendere la mano e creare una versione ideale di noi stessi, alla quale aspiriamo talmente tanto che alla fine iniziamo a credere alla nostra stessa mitologia, perdendo la cognizione di ciò che é  reale e ciò che invece é puro artificio.

Siamo, insomma, tutti dei potenziali Mattia Pascal, seppure paradossalmente lo siamo in un mondo in cui la morsa della burocrazia che indissolubilmente ci lega alla nostra identità  ‘ufficiale’ si fa sempre più stretta.

Più l’informazione ci segue e si insinua nella nostra vita sotto forma  di numeri, accounts e codici a barre, e più noi vogliamo scappare, salire sul prossimo treno, fermandoci magari al casinò di Montecarlo, e, con una vincita in tasca, diventare anche noi Adriano Rais, per poi magari un giorno visitare redivivi la tomba del nostro vecchio ego, il ‘nostro’ Fu Mattia Pascal.